Digital Disruption e Pandemia

Brain

Un po’ romanticamente abbiamo vissuto la digital disruption come una selezione delle migliori scene tratte da Minority Report o la saga Matrix, un mix di effetti speciali e ambiziosi intenti che si, un po’ a parole, stava sconvolgendo le nostre vite lavorative ma, alla fine, nella nostra esperienza le riunioni commerciali si svolgevano come vent’anni fa, i clienti entravano in negozio come cento anni fa, la produzione per molte aziende rispettava i canoni della rivoluzione industriale un po’ rivisitata, se non altro per gli aspetti di tutela dei diritti dei lavoratori.

Durante il primo lockdown subito tutto ci è apparso più difficile, perché una misura fisica, la “distanza”, si interponeva in tutte le nostre abituali attività. Di colpo il “digitale” ci è apparso come l’ancora di salvezza per poter continuare le nostre azioni. Quello che era interessante diventava necessario, mettendo a nudo però il ritardo nell’implementazione delle funzionalità digitali nelle nostre aziende e nelle nostre vite lavorative.

Mi riferisco in particolare alla vetustà delle infrastrutture IT, alla mancanza di cultura digitale, alla scarsa volontà di investimento, in particolare investimento in formazione.

Il cambiamento dei modelli di business è determinato soprattutto dall’innovazione tecnologica in abbinamento ai mutamenti sociali; ecco, sull’innovazione tecnologica c’è poco da dire, essendo quasi una costante cosmica, il mutamento sociale invece ci è piovuto in testa come una meteora, per mantenere la metafora universale.

Alcune leve trainanti della digital disruption hanno subito un’accelerazione, di attenzione, di investimenti, considerazione; mi riferisco in particolare a

  • SMART products. Prodotti che – fondendo tecnologia digitale e fisicità – possano trasmettere dati a distanza, o essere operati a distanza nelle loro funzionalità.
  • Banale no? Dopo tutti i film che abbiamo visto. La robotizzazione di grandi quantità di azioni diventa centrale nell’idea di sviluppo.
  • Affinché le macchine o le interfacce digitali imparino, ecco l‘intelligenza artificiale. Non certo una novità, ma è in forte crescita l’attenzione sull’AI.
  • Interoperabilità dei sistemi, e dunque interfacce o- in altre parole – API.

Un aspetto, nella mia esperienza professionale, è di particolare importanza: il fatto che il distacco, ad esempio tra cliente e venditore, renda necessaria la ricreazione di ambienti attraverso i quali poter trasmettere a distanza le peculiarità del prodotto e le possibilità combinatorie delle sue varianti. Le esperienze immersive (grazie alla realtà aumentata o virtuale) consentono di riprodurre situazioni confortevoli sia per chi deve valutare un prodotto per acquistarlo, sia per il venditore per spiegarne gli attributi, le funzionalità, la gamma. E dunque guidare una motocicletta in una pista immaginaria, immergere la nuova cucina (virtuale) nella propria cucina di casa (vera), visitare palmo a palmo un villaggio turistico a 1000 chilometri di distanza, e così via.

Non è un caso che proprio in questi tempi si cominci a parlare di 6G e della possibilità di dialogare nel salotto del nostro flat di Miami con l’ologramma di nostro nonno che è rimasto nel paesino di montagna nell’appennino abruzzese, grazie ad esempio alle ricerche della facoltà di ingegneria di Padova.

La differenza la fanno i DATI:

  • con i dati è possibile personalizzare le esperienze di acquisto, anche a distanza
  • con i dati i prodotti diventano intelligenti e connessi
  • con i dati i prodotti diventano piattaforme organizzate

Questo passaggio implica la digitalizzazione delle aziende e l’adozione di modelli di business basati sul digitale. Questa trasformazione avvicina – inoltre – il B2B al B2C, anzi, lo frantuma verso un unico linguaggio B(2B)2C, dove l’immersione nel DATO coinvolge venditore e consumatore finale in un’unica, nuova, colossale nuvola: the stream of data.